Le radici ideologiche dei trumpismi e la loro funzione
Quali sono le radici culturali e ideologiche del trumpismo? Abbiamo superato da molto tempo quella fase in cui si supponeva che le ideologie si fossero esaurite con la “fine della storia” annunciata da Fukuyama all’alba degli anni ‘90. E allo stesso modo dovremmo archiviare come troppo generica la dicitura “populista” riferita a tutto quello che ha sfidato, negli ultimi anni, segnando importanti vittorie, il funzionamento delle democrazie liberali, nonché le sue culture ed élite di riferimento. La crisi dell’ordine neo-liberale a guida americana – seguita alla crisi finanziaria ed economica del 2007/2008 – e l’indebolimento della credibilità statunitense come dominus militare globale sono stati fattori potenti di destabilizzazione dell’ordine internazionale, ma anche della società americana e delle sue direttrici valoriali dominanti.

Il populismo di marca nazionalista – per il quale si è usato spesso il termine sovranismo, a voler sottolineare la volontà di abbandonare teoria e pratica dell’interdipendenza democratica che era stata disegnata dopo la fine della Guerra fredda dagli stessi Stati Uniti – nel caso americano ha conosciuto altri due fattori di sviluppo interni, senza i quali non si comprenderebbe la forza del movimento trumpiano MAGA. Il primo è il contraccolpo interno rispetto ai processi di globalizzazione economica e delocalizzazione industriale; il secondo, la vittoria di Barack Obama nel 2008. Il primo ha reso “politicamente” contendibili le aree del Paese in declino – creando una sorta di antagonismo, quasi antropologico, con i territori e i segmenti socio-economici che hanno beneficiato del boom dell’economia dei servizi e del digitale. Il secondo, per reazione all’avvento del primo presidente afro-americano ha fatto riemergere il suprematismo bianco e una militanza “antigovernativa” spesso culturalmente contigua.
Obama ha rappresentato un fattore di mobilitazione per i campioni della sfida identitaria – contro l’emersione dell’America post-razziale – e per chi si è opposto alla riforma sanitaria del 2010 (“Obamacare”), simbolo di una deriva interventista e pro-welfare. Il Tea Party, movimento anti-obamiano nato nel 2009, è stato un mix di questi due fattori: sciovinismo bianco e paura di un aumento del prelievo fiscale, in un quadro più generale e sottinteso di paura di perdita di status, primato e potere da parte una porzione di America piuttosto variegata e interclassista. Una classe media bianca consolidata, che si è sentita “left behind”, lasciata indietro trascurata, in competizione con una nuova classe media emergente, spesso multietnica, e la business community globalizzante e “globalista”.
Trump è divenuto il catalizzatore delle domande provenienti da parte di questi settori nel 2016, ed è stato poi capace di allargare la sua base elettorale nel 2020 e nel 2024. Un misto di suprematismo, complottismo, etnonazionalismo, nazionalismo di matrice cristiana, nazionalismo economico, ideologia dello small government (tranne che per ciò che concerne il Security State) e anti-globalismo che ha trovato un unificatore nella figura carismatica di Donald Trump. Ogni elettore repubblicano ha potuto consumare la quantità e il mix di questi fattori secondo le sue esigenze e le sue credenze. Nel Trump 2, però, si è rafforzato il rapporto tra queste matrici ideologiche e l’azione di governo, per motivi che i media hanno ampiamente discusso già nei primi cento giorni: l’opinione diffusa che la sua seconda Amministrazione sia animata da una generazione di policymaker di nativi e convertiti trumpiani, ossia di fedelissimi pronti ad applicare nel governo l’ideologia trumpista, che era mancata nella prima, è corretta.
Il famoso Project 2025 – nato per iniziativa del think tank conservatore Heritage Foundation come guida per l’azione presidenziale – condivide con altre iniziative simili l’attenzione ai meccanismi di presa di possesso del potere esecutivo, di espansione delle sue prerogative e di neutralizzazione delle iniziative del potere legislativo, di quello giudiziario e di quello dei singoli Stati che si contrappongono a Trump – senza porsi remore di fronte alla conseguente esplosione di una crisi costituzionale. Le varie anime ideologiche dell’amministrazione convergono su una visione purificatrice e rivoluzionaria dell’esecutivo.
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Il trumpismo lega, però, elementi eterogenei e potenzialmente contraddittori (protezionismo e tagli fiscali, retorica pro-working class e politiche pro-business, appelli all’ordine tradizionale e rottura delle norme) in una narrazione che appare coerente ai suoi sostenitori, ma che è inscindibile dall’azione performativa del capo. Il loro assemblaggio dipende – di volta in volta – da contesto, contingenza e scelte tattiche.
In un quadro così complesso, chi sono gli “ideologi” di Trump? La centralità del Presidente nel comporre questo prisma gli fornisce un ruolo tale da rendere futile – o quasi – il tentativo di risalire al “Dugin trumpiano”. Insomma, Trump può continuamente rideterminare le gerarchie interne del suo discorso pubblico e ridisegnare la geografia del suo puzzle valoriale, per nulla preoccupato di apparire incoerente. E’ vero, però, che esistono punti di contatto importanti fra think tank, ideologi del nazional-conservatorismo americano e membri dell’amministrazione. Qui si vogliono mettere in evidenza, in modo sommario, due figure che possono rappresentare una cerniera fra mondo delle idee conservatrici, esterno a Trump, e il performer-in-chief.
La prima è Stephen Miller, coordinatore delle policy dell’Amministrazione, ed ex direttore dello speechwriting nel primo mandato: persona a cavallo, cioè, fra la sostanza della costruzione delle politiche e la costruzione narrativa del messaggio. Miller (classe 1985) è stato un attivista conservatore fin dalla gioventù: nazionalista, anti-globalista, anti-immigrazione, legato al Senatore Jeff Sessions, ovvero uno dei senatori più conservatori del Partito repubblicano (Sessions e Miller hanno lavorato assieme sull’idea che esista un legame indissolubile fra terrorismo e immigrazione illegale). In Miller, per esempio, risuonano temi e parole del suprematismo bianco; il Washington Post fu fra i primi ad analizzare i contenuti delle sue conferenze stampa nel 2017.
L’altra figura con un ruolo di primo piano nell’Amministrazione e un forte background ideologico è quella di Russ Vought, direttore dell’Ufficio per la Gestione e il Bilancio e uno dei coordinatori del Project 2025. Erediterà la gestione del DOGE di Elon Musk – in un quadro istituzionale più “convenzionale” – e proseguirà il processo di politicizzazione della burocrazia federale. Dal punto di vista politico Vought si autodefinisce “un conservatore cristiano”, ed è il fondatore del think tank Center for Renewing America, che “è stato creato – si legge nella presentazione del centro, inaugurato nel 2021 – per contrastare l’agenda “woke” della classe dirigente e sostituirla con una che metta Dio, patria e comunità al centro del dibattito politico a Washington”.

Questi sono solo due dei nomi che si caratterizzano per la loro capacità di legare azione politico-amministrativa a un quadro ideologico. Nel turbine della corte MAGA, poi, esistono figure intellettuali che ciclicamente entrano nei radar della comunicazione, a partire da Curtis Yarvin, citato in passato da JD Vance e Michael Anton, attuale capo del policy planning del Dipartimento di Stato. Anche Anton è una figura al confine fra intellettualismo di destra militante e governo, cantore dell’americanismo e nemico dell’idea della diversità: “la diversità non è la nostra forza; è una fonte di debolezza, tensione e disunione”, scriveva nel 2016.
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Yarvin – intellettuale eccentrico, ingegnere informatico e storico fai-da-te – condivide con altri fautori del cosiddetto movimento del Dark Enlightenement l’idea che la democrazia non sia il compimento della civiltà; anzi, si tratterebbe di una sua degenerazione. Una menzogna che maschera il potere reale, una super-struttura – The Cathedral, come la definisce – composta da media, università e burocrazie statali, che diffonde dogmi progressisti e governa l’opinione pubblica. Queste posizioni sono state discusse con Anton nel podcast di quest’ultimo, facendo riferimento alla necessità di un “American Caesar”: una sorta di CEO che, anche grazie alla tecnologia, acceleri la destabilizzazione dei sistemi esistenti e crei un cambiamento radicale. Simili teorizzazioni sono state riprese da Peter Thiel e altri magnati delle big tech: i visionari della Silicon Valley, sempre a cavallo fra progetto onirico del futuro e interessi economici a breve termine.
Yarvin è un profilo culturalmente incerto – le sue ricostruzioni storiche sono piene di inesattezze grossolane – ma facilmente mediatizzabile, che riprende una visione complottista del ruolo dei governi ben radicata nella storia americana, familiare anche a larga parte del pubblico. Difficile, però, pensare che possa essere davvero lui, o i tanti che a lui somigliano, il vero motore ideologico di questa amministrazione. Piuttosto, emergono convergenze sempre più forti, non sempre intellettuali, nella giustificazione della creazione di un esecutivo “della provvidenza”.
In generale, è sempre utile a questo modello di conservatorismo trumpiano che esistano guastatori che esprimono un pensiero “estremo”, con il quale – alla bisogna – flirtare, allontanarsi, litigare, riappacificarsi… a seconda degli obiettivi e delle necessità tattiche.