Fare previsioni sulla durata del fragile cessate il fuoco appena concordato, sulle violazioni della tregua o sulla sua evoluzione, non è meno complesso che delineare un modo per uscire da una crisi iniziata con la “Partition” del 1947 e la nascita di due Stati dalle costole del Raj britannico corrispondente al sub-continente indiano. Due Stati che, da allora, si guardano con gran sospetto.
Il Kashmir si è rivelato il peccato originale, lungo quei confini che erano stati voluti dalle logiche coloniali, la cui appartenenza fu decisa in modo univoco dall’élite indù di quella regione. Per il Pakistan, non meno che per l’India, la questione del Kashmir è da sempre un nodo irrisolto, percepito essenzialmente dai pachistani come un’ingiustizia concordata dai vertici locali con le autorità indiane. Il fatto che la popolazione kashmira fosse e sia in maggioranza musulmana, ha inoltre sempre giustificato agli occhi dei pachistani qualsiasi azione per “liberare” una regione che Islamabad riteneva e ritiene una sua logica pertinenza.

Obiettivi forti, governi deboli
Risolvere quel nodo, al netto di diverse guerre e numerosi “incidenti” più o meno gravi, il penultimo dei quali avvenuto nel 2019, sembra oggi ancora più complicato di ieri soprattutto per due motivi: per i pachistani il cambio costituzionale operato da Delhi nel 2019, che ha modificato lo status giuridico del Kashmir privandolo della sua storica autonomia, è stato ritenuto – dalle classi dirigenti di Islamabad non meno che dal popolo pachistano – una sorta di affronto insanabile. Che ha posto le basi per una maggior dipendenza da Delhi e che consente l’acquisizione di proprietà kashmire anche da non residenti, quindi da parte di altri cittadini indiani e dunque anche da non musulmani. In secondo luogo, lo scontro attuale avviene in un momento in cui i due governi al potere in India e in Pakistan sono fragili del punto di vista della popolarità.
Se Narendra Modi ha visto il consenso al suo partito erodersi nelle ultime elezioni politiche (anche nello stesso Jammu e Kashmir), il governo di Shehbaz Sharif in Pakistan è nato con una sorta di colpo di mano istituzionale che ha esautorato il premier precedente, l’ex giocatore di cricket Imran Khan a capo del Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti), un partito in forte crescita che aveva stravinto le elezioni del 2018. Sfiduciato Imran Khan con voto parlamentare, la coalizione formata dai due storici partiti pachistani Pml (Lega musulmana del Pakistan) e Ppp (Partito popolare pachistano) ha ricevuto il riconoscimento delle urne nel 2024. Ma va detto che durante le elezioni generali in quell’anno, gli indipendenti sostenuti dal Pti (che avevano il divieto di presentarsi con il simbolo del partito!) potevano portare a casa i voti di un esteso consenso popolare che non ha però impedito a Shehbaz Sharif di essere eletto premier per un secondo mandato. Tutto ciò avveniva mentre Imran Khan era stato arrestato, condannato e letteralmente ricoperto di denunce – dall’appropriazione indebita al terrorismo – finendo vittima, secondo il suo partito ma anche per diversi osservatori internazionali, di una vera e propria persecuzione politica attuata attraverso pressioni sulla magistratura.
Una stagione politica, dunque, che negli ultimi anni ha visto numerose manifestazioni di piazza, marce sulla capitale, turbolenze in varie regioni, specie dove Imran Khan (la sua roccaforte è la provincia del Kyber Pkthunkwa) aveva raccolto i consensi maggiori. Ma che ha anche visto aggravarsi una crisi economica – abbastanza endemica in Pakistan – che non ha dato grandi segni di ripresa nonostante iniezioni di prestiti concordati col Fondo Monetario Internazionale (oltre 8 mld di dollari negli ultimi due anni). Ovviamente un conflitto con l’India diventa facilmente un’arma che può ridimensionare o annullare le contestazioni a un governo debole e impopolare che si regge sul patto tra le grandi famiglie del Paese (gli Sharif e i Bhutto) e l’esercito, una potenza anche economica e che, secondo diversi osservatori, dopo aver inizialmente sostenuto Imran Khan è passato poi tra i suoi più ferrei denigratori.
Botta, risposta e mediazioni
Per come è stata condotta l’ennesima escalation militare tra India e Pakistan, si poteva intravederne un decorso non dissimile dagli incidenti precedenti con un botta e risposta teso a rafforzare e a salvare la faccia delle élite politiche e dei rispettivi eserciti: in una guerra fatta anche di una propaganda facilmente accettata da entrambe le opinioni pubbliche e in cui anche i partiti di opposizione (in Pakistan il Pti) si sono schierati con toni patriottici e, pur criticando l’esecutivo, hanno finito per sostenerlo.
E’ ovviamente difficile capire il grado di soddisfazione reciproca e dunque la possibile fine del contenzioso in corso ma è anche abbastanza evidente che, almeno in questo caso, non c’è stato un particolare segno di buona volontà da una parte o dall’altra ma semmai l’ancoraggio a una proposta di mediazione fatta da altri. Si sono fatti avanti gli Stati Uniti di Donald Trump, ma anche Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Turchia: i Paesi del Golfo in particolare, al centro ormai da anni di un sostanziale attivismo diplomatico e in grado di avere una forte influenza su Islamabad.
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Il Pakistan ha dato comunque prova di compattezza – con dichiarazioni di sostegno all’azione del governo e dell’esercito anche da parte di personaggi famosi come cantanti e attori – e dunque l’esecutivo e gli alti gradi militari potrebbero ritenersi soddisfatti. Resta la sensazione che da nessuna delle due parti – India e Pakistan – vi sia per ora l’intenzione di riaprire un dialogo ormai da anni congelato come i ghiacciai kashmiri.