international analysis and commentary

India-Pakistan, la nuova crisi tra due potenze nucleari

821

Il 22 aprile un attacco terroristico nel distretto di Pahalgam, nel Kashmir indiano (che formalmente Delhi designa come Jammu e Kashmir, Stato ufficiale dell’Unione), ha fatto precipitare India e Pakistan in una delle crisi più gravi degli ultimi decenni. L’attentato, rivendicato dal Fronte della Resistenza (The Resistance Front), gruppo considerato affiliato agli islamisti pakistani del Lashkar-e-Taiba, ha innescato una reazione militare immediata da parte indiana.

 

Nei giorni successivi, il governo indiano ha lanciato l’«Operazione Sindoor», colpendo postazioni indicate come basi jihadiste in territorio pakistano. Islamabad ha reagito abbattendo alcuni velivoli e lanciando offensive mirate contro basi militari indiane. Il 10 maggio ha poi annunciato l’avvio dell’«Operazione Bunyan Marsoos», con una serie di attacchi a depositi missilistici e centri radar.

L’offensiva ha segnato un salto di qualità in un conflitto che, a fasi alterne, si protrae dalla fine del dominio coloniale britannico: droni, missili balistici e incursioni coordinate sono stati impiegati simultaneamente, accelerando l’escalation e portando India e Pakistan sull’orlo di uno scontro armato su larga scala tra potenze nucleari. Fino al 10 maggio,  quando – anche grazie alla mediazione degli Stati Uniti – è stato dichiarato un cessate il fuoco, peraltro subito messo in discussione dalle violazioni denunciate da entrambe le parti nelle ore successive.

Nella dinamica militare, l’uso di velivoli senza pilota ha assunto un ruolo centrale nelle operazioni belliche. L’India ha impiegato due modelli israeliani: gli Heron – per operazioni di ricognizione e sorveglianza a lungo raggio – e i droni kamikaze Harop, progettati per colpire obiettivi ad alta priorità. Il Pakistan ha risposto con una combinazione di sistemi: i CH-4 di fabbricazione cinese, i Bayraktar turchi e i Burraq – sviluppati internamente – utilizzati sia per missioni di attacco che di osservazione.

La crisi di questi giorni si è aggravata ulteriormente con la sospensione unilaterale da parte dell’India del «Trattato delle Acque dell’Indo», firmato nel 1960. L’accordo ha sempre garantito al Pakistan il diritto esclusivo d’uso sui fiumi occidentali (Indo, Jhelum, Chenab), mentre Delhi manteneva il controllo su quelli orientali (Ravi, Beas, Sutlej). La decisione è stata ovviamente interpretata da Islamabad come un atto ostile, con potenziali conseguenze devastanti per un Paese in cui il 90% delle terre coltivabili e l’80% delle risorse idriche dipendono da quei fiumi e dove un quarto dell’energia elettrica è generato da centrali idroelettriche alimentate dagli stessi corsi d’acqua.

Attualmente, l’India gestisce un vasto sistema di dighe e bacini idrici costruiti a monte dei fiumi contesi, tra cui le dighe di Baglihar e Kishanganga, entrambe situate nel Jammu e Kashmir. Pur essendo autorizzate dal trattato per scopi idroelettrici, queste infrastrutture le conferiscono un potere di regolazione significativo. Il controllo di questo «oro blu» è ormai una leva strategica, facilmente convertibile in arma geopolitica: aprire o chiudere le dighe significa influenzare sicurezza alimentare, produzione energetica e stabilità sociale.

I fiumi interessati dal Trattato sulle Acque dell’Indo

 

Il conflitto tra India e Pakistan affonda le radici nella “Partizione” del 1947. Il Kashmir, a maggioranza musulmana ma con un sovrano induista, ha aderito all’India, provocando la prima guerra tra i due Paesi. Da allora ne sono seguite altre due (1965 e 1971), oltre a scontri ricorrenti, attentati e crisi diplomatiche. Per Delhi è una questione di sovranità e sicurezza, mentre per Islamabad una battaglia identitaria, religiosa e storicamente legata alla rivendicazione del diritto all’autodeterminazione del popolo kashmiro.

Negli anni, la disputa ha visto l’emergere di gruppi armati radicali che hanno contribuito ad alimentare il conflitto. Tra questi, spicca Lashkar-e-Taiba, fondata in Pakistan negli anni Ottanta e ritenuta responsabile degli attentati di Mumbai del 2008, oggi inserita nelle liste delle organizzazioni terroristiche da India, Stati Uniti e Unione Europea. Un ruolo centrale è stato giocato anche da Jaish-e-Mohammed, creata nel 2000, anche questa classificata come gruppo terroristico da numerosi Paesi. Più recentemente è emersa Ansar Ghazwat-ul-Hind, considerata affiliata ad al-Qaeda e attiva soprattutto in Kashmir, con l’obiettivo dichiarato di instaurare uno stato islamico fondato sulla Sharia. Sebbene il governo pakistano continui a negare legami ufficiali con queste organizzazioni, diversi rapporti internazionali indipendenti indicano che componenti del servizio di intelligence militare li abbiano storicamente sostenuti.

La Cina, storica alleata del Pakistan, ha osservato la crisi di questi giorni con apprensione crescente. Il Corridoio Economico Cina-Pakistan (CPEC), progetto da 62 miliardi di dollari e snodo centrale della Nuova Via della Seta, collegherà una volta terminato il porto pakistano di Gwadar alla regione autonoma dello Xinjiang, attraversando territori altamente instabili come il Gilgit-Baltistan. Quest’area montuosa, strategica e ricca di risorse, è formalmente amministrata dal Pakistan ma rivendicata dall’India come parte integrante del Kashmir.

Per la Cina, il CPEC rappresenta una via d’accesso diretta all’Oceano Indiano, alternativa allo Stretto di Malacca, snodo marittimo strategico fortemente pattugliato dalla Marina statunitense. È un’arteria vitale fatta di oleodotti, gasdotti, ferrovie e poli industriali. Una guerra lungo questo asse esporrebbe gli investimenti cinesi a gravi rischi e vanificherebbe anni di penetrazione economica e diplomatica. Per questo, pur sostenendo Islamabad, Pechino ha tutto l’interesse a evitare un’escalation e mantenere stabile il fianco occidentale del suo progetto di sviluppo commerciale.

Il progetto del corridoio tra la Cina e l’Oceano Indiano.

 

Negli ultimi anni, la cooperazione tra Cina e Pakistan si è estesa ben oltre le infrastrutture. Secondo la Banca Mondiale, Pechino detiene circa il 22% del debito estero pakistano, per un totale di quasi 29 miliardi di dollari. La Cina è così il principale creditore bilaterale del Paese, superando ampiamente organismi come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca asiatica di sviluppo. Questo le ha garantito una crescente influenza politica su uno Stato ritenuto strategico per il controllo delle rotte marittime e per la sua proiezione militare nell’Oceano Indiano.

Mentre Pechino rafforza la sua presa su Islamabad, Washington ha progressivamente ridotto il proprio coinvolgimento con il Pakistan, spostando il baricentro della sua presenza strategica verso l’India. Per decenni gli Stati Uniti hanno considerato il Pakistan un alleato chiave, prima nella Guerra Fredda e poi nella lotta al terrorismo islamico. Ma il ritiro dall’Afghanistan nel 2021 (deciso dall’amministrazione Biden) ha segnato una svolta.

L’allontanamento è iniziato già con la prima amministrazione Trump che (oltre a porre le basi per il ritiro afghano) aveva ridotto drasticamente gli aiuti militari e civili a Islamabad, accusando il governo pakistano di ambiguità nei confronti del terrorismo jihadista. Il distacco si è accentuato con l’avvicinamento tra Washington e Delhi, rafforzato da interessi convergenti: contenere l’espansione cinese nell’Indo-Pacifico, garantire la sicurezza delle rotte marittime e sviluppare partnership tecnologiche e militari.

Il rischio escalation dell’ultimo periodo non riguarda solo un confronto armato su larga scala. Parliamo infatti, come detto, di due potenze nucleari. Secondo i dati del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), l’India possiede 172 testate, il Pakistan 170. Nuova Delhi segue ufficialmente una dottrina del «no first use», mentre Islamabad mantiene una strategia più ambigua, dichiarando la possibilità di un primo impiego in caso di minaccia esistenziale.

 

Leggi anche: India and Pakistan, nuclear rivals

 

In questi giorni, in Pakistan è circolata la notizia di una convocazione dell’Autorità di Comando Nazionale, l’organo che sovrintende al sistema nucleare. Il ministro della Difesa ha negato, definendola «una possibilità remota». Ma il fatto stesso che se ne sia parlato, rivela la soglia di tensione raggiunta.

Il Kashmir resta un nodo centrale: regione strategica e simbolica, è divisa ma rivendicata interamente da entrambi i Paesi. Le tensioni attuali non sono che l’ultimo capitolo di un confronto ciclico mai davvero risolto. Finché Delhi e Islamabad non ne affronteranno con volontà politica le cause profonde, il conflitto resterà sempre dietro l’angolo. E ogni tregua sarà fragile, così come ogni crisi potrebbe essere potenzialmente drammatica.