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Il ‘riarmo’ europeo: quando la teoria può offrire un cambio di prospettiva

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Il dibattitto sul processo impropriamente definito “riarmo europeo” ha catalizzato per alcune settimane le attenzioni di molti nel Vecchio Continente. Dopo una brusca accelerazione, il tema è stato in qualche modo superato da quello dei dazi – – la nuova ma largamente prevista ‘bomba’ lanciata dall’amministrazione Repubblicana. Anche alla sfida tariffaria toccherà probabilmente la stessa sorte, tuttavia. In quel momento, in accordo con il paradigma caotico che secondo alcuni costituisce il metodo che Trump e il suo entourage osservano nella gestione degli affari internazionali, è plausibile che la difesa ritorni ai vertici dell’agenda.

Sino ad allora, poiché l’eco mediatica su tale questione è ridimensionata, ci troveremo però nella condizione di dover condurre una riflessione strutturata sul significato delle risposte europee, senza che il clamore destato da certe esternazioni o il senso di urgenza condizionino il nostro giudizio e quello dei lettori.

 

Il catalizzatore Trump

L’effetto Trump – così chiamerei l’onda di sentimenti e reazioni generata dallo strappo intercorso nelle relazioni transatlantiche – ha agito sinora da catalizzatore, innescando una sorta di gioco scenico capace di rendere opachi i punti chiave sui quali poggia l’intera questione della difesa in qualità di politica pubblica e industriale.

Quando si fa riferimento a quell’ambito, infatti, vale la pena ricordare che siamo di fronte a una politica nella quale i livelli di capitali, risorse umane, competenze e tecnologie investiti sono più elevati rispetto alla maggior parte di qualsiasi altro settore produttivo. Inoltre, proprio a causa dell’estensione e della complessità dei processi industriali associati alle produzioni militari, gli altri settori dell’industria svolgono un ruolo altrettanto essenziale. Quando si parla di difesa, insomma, si chiama in causa un potenziale – e sottolineo questo aggettivo, perché gli esisti affatto automatici dipenderanno dalla qualità delle politiche e dalla loro coerenza rispetto al contesto – catalizzatore di sviluppo economico.

Come sottolineava Mariana Mazzucato in relazione agli effetti del programma Apollo (1961-1972) sul sistema produttivo americano durante la Guerra fredda, avviare un programma che implichi maggiori investimenti nella difesa presuppone che gli Stati assumano il ruolo di risk taker, investendo i denari dei contribuenti – grandi volumi di risorse, a dire il vero – su imprese e progetti che potrebbero rivelarsi ottimi affari o, al contrario, enormi buchi neri.[1]

 

Difesa, alleanze, relazioni

La difesa è un settore la cui base industriale è in prima battuta civile. Acciaio, tessuti, componenti elettroniche, veicoli e logistiche – solo per fare alcuni esempi – sono componenti prodotti e servizi erogati da imprese civili accreditate presso i ministeri della Difesa in qualità di fornitori. Conseguentemente, le eventuali efficacia ed efficienza di certe politiche di difesa rappresentano una sorta di istantanea del cosiddetto ‘sistema Paese’ e delle relazioni tra decisori politici, apparati pubblici, élite economica (finanza e imprenditoria) e società civile. In fasi di stagnazione o potenziale recessione e in assenza di scenari esterni da corsa agli armamenti, non di rado gli investimenti in difesa si sono tradotti infatti in poderose manovre di tipo neokeynesiano.

Proprio alla luce di quest’ultima considerazione, gli investimenti in difesa si delineano come peculiari in termini di capacità di mobilitare consenso il quale, nella fattispecie dei regimi democratici, è la posta in gioco di qualsivoglia competizione elettorale. Non sorprende che dinnanzi ad affermazioni che colpivano l’Europea e i Paesi membri dell’Unione tanto nella dimensione commerciale quanto in quella della sicurezza – una sorta di doppia delegittimazione, insomma – sia la Commissione europea sia alcune leadership nazionali si siano rivelate così reattive.

In una congiuntura nella quale la crisi del settore automotive e i costi dell’energia stanno impattando negativamente sui livelli di produzione industriale di Stati come Germania e Italia, infatti, lo strappo creato oltreoceano ha determinato uno spazio di manovra politica che i governi europei potrebbero sfruttare. Tuttavia, per inquadrare correttamente la questione delle scelte europee in materia di difesa vanno sviluppate alcune considerazioni sul contesto dal quale originano: un’alleanza altamente istituzionalizzata come la NATO e una relazione asimmetrica tra la potenza prevalente nel sistema internazionale e un gruppo di medie potenze.

 

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Per quanto concerne le alleanze, tali strutture di relazioni sono utilizzate dagli Stati più come strumento di controllo dell’ambiente internazionale che non come aggregatore o moltiplicatore della loro forza. Legandosi ad altri Stati, proprio in virtù di un rapporto strutturato attorno all’assunto che certi interessi siano condivisi, è possibile condizionarne il comportamento sulla scorta di una reale, presunta o percepita minaccia esterna. Oltre a costituire la principale ragion d’essere formale dell’accordo, infatti, la presenza di un nemico comune determina una specifica struttura di incentivi che consente ai partner di formulare delle ipotesi in merito ai comportamenti dei rispettivi alleati.

Durante la Guerra Fredda, ad esempio, la minaccia convenzionale posta in essere dall’Armata rossa (non quella nucleare, sia chiaro) rendeva indispensabile per l’Europa la garanzia fornita dal cosiddetto ombrello nucleare americano. L’eventuale riluttanza da parte di Washington ad assumersi tale responsabilità, di conseguenza, tendeva a rendere i Paesi europei più accondiscendenti rispetto a richieste da parte dell’alleato anche in materie in cui sarebbe stato giustificato agire secondo una diversa caratterizzazione dell’interesse nazionale. In un contesto nel quale la minaccia esterna appariva esplicita, insomma, il timore di essere abbandonati alla mercé di un potenziale aggressore, agiva come leva di breve periodo per ottenere comportamenti conformi – o maggiormente conformi – agli scopi di Washington. Il quadro attuale, tuttavia, può ritenersi comprabile? In prima battuta, si dovrebbe dire di no. Per meglio capire differenze e analogie, è opportuno domandarsi quali siano le finalità profonde alla base dell’atteggiamento di Trump e quali scenari tendano a generare.

Benché abbia agito in maniera aggressiva e usato la forza in Ucraina, la Russia attuale non evidenzia un profilo da attore globale come l’URSS, né il sistema internazionale mostra la coerenza presente durante il cosiddetto bipolarismo. Al di là di qualunque tentativo di narrazione da parte del Cremlino e delle posizioni ufficiali espresse dalla NATO, ritengo che guardando alle dinamiche di potere mondiali, ai paradigmi strategici delle parti coinvolte e ai dati comportamentali generati dalle operazioni sul campo, da un punto si vista sostantivo l’Europa non costituisce più il potenziale obiettivo di un’aggressione terrestre, né di una probabile ritorsione da parte di Mosca. Conseguentemente, anche il valore della protezione americana – o viceversa la minaccia da parte di Washington di un possibile abbandono – assumono non solo un valore, ma un significato affatto assimilabile al passato.

 

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Nel quadro di una relazione che sta virando da meccanismi basati sul negoziato e l’accomodamento ad altri improntati all’assertività e alla coercizione, infatti, il revisionismo trumpiano nelle relazioni transatlantiche non è in grado di causare perdite unilaterali per l’Europa. Al contrario, da tale comportamento per il Vecchio continente scaturisce l’opportunità di ridefinire in chiave di una maggiore simmetria le relazioni con l’attore dominante del sistema, in un momento nel quale i rapporti tra Stati e regioni sono fluidi.

 

“Dare una chance alla guerra”

Sul versante dei rapporti interalleati, superando la reazione di pancia che possono generare i toni e la narrativa trumpiana, l’idea che l’Europa se la debba cavare da sola crea un clima favorevole a una ridefinizione del ruolo europeo che sia non solo più coerente con il momento storico che il sistema internazionale sta attraversano, ma anche potenzialmente in grado di accrescere il potere relativo dell’Europa nei riguardi sia di Washington sia di altre potenze come Russia, Turchia e Cina.

Se – come affermava Luttwak – si avesse il coraggio di “dare una chance alla guerra”, nel senso di riuscire in questo caso a superare il tabù legato agli investimenti nella difesa e i retaggi delle due Guerre mondiali, la contraddizione alimentata dalle posizioni dell’amministrazione USA rispetto ai contenuti degli accordi NATO costituirà dunque una possibile via sia per rilanciare la produzione industriale in UE, sia per emanciparsi dalla protezione di Washington – o dalla convinzione che essa sia indispensabile – sul fronte della sicurezza. Certo, per farlo si dovranno sciogliere nodi politico-identitari cruciali e porre senza mezzi termini le basi per un paradigma di difesa basato sull’evidenza che, nell’attuale sistema internazionale, l’Europa rappresenta la regione con la maggiore concentrazione di medie potenze.

Come accennavo, l’Europa è costituita da un aggregato parzialmente coordinato di medie potenze. Nel contesto del processo di integrazione, la difesa ha costituito da sempre una sorta di tasto dolente a partire dai timori collegati al riarmo tedesco, passando attraverso il ruolo dei Paesi appartenuti all’ex-blocco comunista. La questione del trade-off tra efficacia ed eventuale perdita di sovranità da parte dei Paesi membri, del resto, è stata e rimane tuttora una questione cruciale quanto irrisolta. In questo quadro, che tende a determinare un’impasse sul piano interno e a relegare l’Europa al ruolo di comprimaria nel sistema internazionale, a partire dagli anni Novanta la NATO ha fornito un ambiente in grado di fare progredire il coordinamento tra gli apparati militari, smorzando i particolarismi e talune reciproche diffidenze tra Paesi europei. Al tempo stesso, tuttavia, l’alleanza ha anche prodotto un appiattimento delle posizioni europee (non privo di ambiguità di fiondo, va detto) su quelle degli Stati Uniti.

 

Asimmetrie da correggere

Proprio l’aspetto dell’eccessivo allineamento tra posizioni delle medie potenze e quelle della (o delle nel caso di strutture multipolari) potenze dominanti nel sistema internazionale è stato esaminato dalla letteratura internazionalistica. In larga misura quelle tesi spiegano certe tensioni strutturali che hanno storicamente connotato il rapporto tra Stati Uniti e Paesi europei e, nella congiuntura attuale, forniscono una lettura differente in merito al possibile passo indietro di Washington e al potenziale degli investimenti da parte dell’UE nel settore della difesa.

Nello specifico, la presenza di un’alleanza permanente o quasi come la NATO e uno sviluppo subottimale delle capacità di difesa autoctone – siano esse nazionali o sovranazionali – sono inseriti all’interno di un rapporto asimmetrico sul piano della potenza, come quello con gli Stati Uniti. Si tratta di fattori che tendono a cristallizzare i ruoli e i comportamenti degli attori coinvolti.

Se da un lato, l’assenza di dinamismo rende più prevedibili le relazioni tra partner – una fattore che durante la Guerra fredda ha avuto un ruolo importante nella gestione del triangolo USA-Europa-URSS – dall’altro il processo ha fatto effettivamente evolvere quei rapporti da stabili a statici, spingendo gli europei a investire poco e male nella difesa – come è avvenuto dal 1991 in avanti. Estinta la minaccia sovietica, in accordo con l’anarchia che regola i rapporti tra Stati e con le logiche che regolano delle sane dinamiche negoziali, i Paesi europei avrebbero semplicemente dovuto affrontare coerentemente il loro ruolo alla luce di un contesto mutato e di una relazione che il proprio partner principale a sua volta ridefinita alla luce dell’ambiente stesso. In quel caso, già con le guerre in ex-Iugoslavia, la naturale dialettica tra Stati avrebbe agito da meccanismo di aggiustamento e armonizzazione delle relazioni tra partner dinnanzi ai mutamenti esterni. Non sarebbe stato facile né indolore, va da sé, ma avremmo letteralmente guadagnato trent’anni.

In un quadro internazionale che sta evolvendo ed evidenzia una pluralità di elementi di instabilità, la pretesa di fedeltà commerciale verso gli USA abbinata alla sottrazione di sostegno da parte americana nei confronti degli impegni di sicurezza contratti con e verso l’Europa, ha offerto agli attori europei alcune opportunità. Non solo le condizioni di cui tanto la letteratura sulle alleanze, quanto quella sulle medie potenze descrivono come necessarie perché gli Stati più deboli si rinforzino e si emancipino da quelli più forti, ma anche l’ambiente perché tale processo sia narrato alla controparte come un modo per andare incontro ai suoi desiderata – il che in effetti rappresenta un grosso regalo da parte dell’amministrazione Trump.

 

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In una fase di stagnazione della politica europea, infatti, la situazione venutasi a creare consentirebbe ai leader continentali di dare prova della capacità di convertire le risorse materiali e ideali di cui dispongono in un disegno di diverso respiro il quale, forse, contribuirà alla ridefinizione del ruolo dell’Europa nel secondo quarto del XXI secolo. Gran parte di questo esito, tuttavia, dipenderà dalla qualità della relazione di interdipendenza che sussiste tra decisori europei e nazionali, tra élite politiche ed economiche e, infine, da una maggiore consapevolezza delle dinamiche che connotano strutturalmente le relazioni internazionali. Solo operando scelte che tengano in adeguata considerazione quei vincoli sarà possibile infatti implementare delle politiche capaci di superare la contingenza e ridisegnare le relazioni transatlantiche – e con esse giocoforza i rapporti intraeuropei.

Diversamente da altri, l’esecutivo italiano sembrerebbe avere colto la peculiarità del momento e lo spazio di manovra più o meno consapevolmente offerta dalle mosse degli USA. Ciò che pare mancare tuttavia in questa fase sono una progettualità di medio-lungo termine nei rapporti con l’Europa e gli USA, e l’ancoraggio a un paradigma operativo che sia modellato sul sistema di vincoli e opportunità derivanti dalla condizione di media potenza in cui si trova l’Italia, come gli altri suoi principali partner europei.

 

 


[1] L’esempio del programma Apollo ricorre in diversi contributi di Mazzucato. Con riferimento al ruolo degli Stati come vettori di innovazione attraverso massicci programmi di investimenti pubblici si rinvia a Mazzucato, Mariana (2013). The Entrepreneurial State: Debunking Public vs. Private Myths in Risk and Innovation (PDF). London: Anthem Press. ISBN 978-0-857-28260-6. OCLC 880908782